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Da Teheran inizia il racconto della prima parte del mio viaggio in Iran dove qualche tempo fa sono stato a trovare un amico, Kourosh. Era nel periodo del Norouz, il capodanno persiano, alla fine di marzo. 
Il racconto ha una forma di reportage narrativo ma è tutto vero. Solo i nomi sono stati cambiati per evitare che le persone citate possano incorrere in problemi.
Questa è la prima puntata del viaggio, ce ne saranno altre.

Teheran da lontano, ovvero l’arrivo a Karaj

Qualcuno bussa alla porta nel cuore della notte. Una donna, indossa il velo anche mentre dorme, si sveglia e va ad aprire. Sono i suoi bambini che le dicono di aver paura di dormire da soli, questo lo capisco dai sottotitoli perché il film è tutto in persiano, non doppiato. La madre allora li porta con sé nel suo letto matrimoniale e si addormentano insieme.

Mi risveglia la voce dell’hostess che chiede di allacciare le cinture. Mentre atterriamo mi accorgo che tutte le donne intorno a me adesso indossano il velo: per alcune è solo un piccolo foulard, per altre un più grande fazzoletto.
All’aeroporto mi è venuto a prendere Kourosh, è rimasto quello di sempre: affabile e insieme imperturbabile. Ci abbracciamo e mi presenta il suo amico: “Amin -mi dice- è il tipico iraniano: ha frequentato una scuola araba e inglese e non parla né arabo né inglese, parla solo persiano”.
Insieme aspettiamo il nostro terzo compagno di viaggio, Jonathas, che ci raggiunge con un aereo da Parigi. Quando arriva abbracciamo anche lui: non ci vedevamo da un anno.

In una tipica berlina in stile iraniano la pelliccia sul cruscotto è una decorazione molto comune.
In una tipica berlina in stile iraniano la pelliccia sul cruscotto è una decorazione molto comune.

Saliamo poi sull’auto di Amin, una berlina stile anni ’70 che sembra identica a tutte le altre auto che si vedono a Teheran.

“Amin -mi dice Kourosh scherzando- è il tipico iraniano: ha frequentato una scuola araba e inglese e non parla né arabo né inglese”.

Dall’aeroporto costeggiamo un lato della città spostandoci verso nord attraverso chilometri di polvere e case color sabbia, basse e lontane, sembrano il preludio della città o la lunga spiaggia di un mare che non c’è.
Racconto a Kourosh del film. “Nel cinema iraniano ci sono canoni precisi da rispettare –mi spiega-. Quello del velo è solo uno, molto evidente. Ma ce ne sono altri”. In Iran, infatti, dalla formazione della repubblica islamica, nel 1979, al cinema sono state imposte numerose limitazioni perché i film corrispondessero al meglio alle necessità del governo. Per questo i registi più interessanti sono stati costretti a trasferirsi all’estero.
Mentre Amin guida a velocità folle e sento il parafanghi fare un rumore sospetto –come stesse per cadere- Kourosh gli dice qualcosa, entrambi ridono, lui si gira verso di noi con aria complice e annuncia: “fra poco arriviamo”.

La nostra casa in Iran

Credevo che Karaj fosse un quartiere di Teheran invece è una città indipendente, e piuttosto grande: oltre un milione di abitanti. Senza auto è impossibile spostarsi verso la capitale.
Lasciamo le scarpe sul pianerottolo. Ci apre un uomo sulla sessantina. E’ Arash, il padre di Kourosh. Sta lì impalato a fianco alla porta e sorride, con aria compiacente. Saluta noi e poi Kourosh con lo stesso affetto eppure, mi dico, sono molti mesi che non vede il figlio.
In casa ci sono anche la madre di Kourosh, Sepidé, e le sue sorelle. Ci invitano a toglierci di dosso gli zaini da viaggio e pranzare con loro.
Sepidé sorride senza parole, come se il fatto che io e Jonathas non la possiamo capire le impedisse in assoluto di comunicare. Ha dei denti d’oro e la faccia le diventa molto rotonda, incorniciata dal velo che dopo un po’ toglierà.
Dalle finestre entra una luce fredda e chiara, il segno che fuori è inverno.

Un pasto tipico sui tappeti iraniani
Un pasto servito come da tradizione sul tappeto. In questo caso: riso, carne, pane, frutta ed erbe di vario tipo.

Shahin, una delle sorelle, mi mette nel piatto del riso e noto che il suo sguardo si sofferma su di me. Devo essere uno dei primi turisti che vede venire qui da fuori, forse il primo.
Io, cercando di essere discreto, osservo la casa, i tappeti su cui mangiamo, poi le pareti con semplici quadri di paesaggio, soprammobili vagamente kitsch, gli occhi scuri di Shahin proprio davanti a me. Mi viene servito del fesenjan, piatto di tacchino condito con sugo di noci, che si mangia accompagnato da riso. Mi perdo in quel sapore straordinario osservando la superficie lunare di un sangiak, il tipico pane cotto su pietra.
E’ incredibile come qui tutto sia buonissimo. Forse, però, è perché siamo nel periodo del Norouz, che si festeggia il 21 marzo, giorno in cui inizia il nuovo anno secondo il calendario persiano. Questa ricorrenza è la preferita dagli iraniani, e il fatto che sia una festa preislamica la dice lunga sul legame che c’è tra l’Iran e l’islam. Cultura persiana pre-islamica e cultura musulmana s’intrecciano continuamente.

Rimaniamo seduti a terra a lungo, con le gambe incrociate ma io dopo un po’ trovo scomoda questa posizione e devo muovermi, sentendomi un po’ in imbarazzo di fronte a loro che invece sembrano stare comodissimi.
A tavola non c’è acqua ma solo bevande: la birra analcolica, visto che qui l’alcol è proibito, e il dugh, un misto tra latte e yogurt molto liquido. Dopo pranzo ci sentiamo appesantiti e Arash, il padre di Kourosh, utilizzando il figlio come interprete, ci dice che è normale, soprattutto perché “il dugh è come una cannonata, ti abbatte”.

A Teheran, il quartiere di Darband

“Stanno costruendo ovunque”, mi dice Kourosh, “ovunque” e guarda fuori dal finestrino.
“Se fra due anni tornassi qui non saprei riconoscere nulla”, aggiunge.
“E ora cosa riconosci rispetto a due anni fa?”
“Riconosco che Teheran è un’altra città”. La metro uscita dai tunnel attraversa una zona punteggiata da decine di scheletri in cemento, strutture di case in costruzione.
“Si fermeranno solo quando capiranno che l’acqua non potrà bastare per tutti” mi dice con una calma rassegnata. Fuori dalla stazione credo che siamo arrivati ma mi sbaglio: dobbiamo ancora camminare fino a piazza Tarjish e poi prendere un taxi. Saliamo su una delle auto in sosta e Kourosh indica all’autista la destinazione, Darband, ma l’auto non parte.
“Che succede?” chiedo. “L’auto non è ancora piena, dobbiamo aspettare che si riempia”.
Rimaniamo in silenzio per qualche secondo mentre intorno gira la giostra colorata e rumorosa di Teheran, auto sgangherate, uomini che vanno incredibilmente tutti in direzioni opposte, donne con veli che comunque non coprono la loro bellezza.
L’attesa si allunga al punto da diventare confusione.

Dopo qualche minuto si apre la portiera alla mia sinistra.
Un ragazzo entra e ci saluta. Poco dopo entrano altri due ragazzi che si siedono uno sull’altro sul sedile anteriore. Infine il tassista. “Ora siamo al completo” mi dice Kourosh.
Il taxi giallo si inerpica per una stradina stretta e ripida ma breve. “Questi –fa Kourosh accennando con la testa ai ragazzi seduti con noi- sono afghani”. “Come lo sai?” “Lo sento dall’accento. Sono immigrati afghani, vanno a Darband a passare la serata”.
Mi basteranno pochi minuti per capire perché.

Delle donne contemplano una bancarella di frutta secca e dolciumi lungo il sentiero di Darband
Delle donne contemplano una bancarella di frutta secca e dolciumi lungo il sentiero di Darband

Darband un tempo era un comune indipendente ma ora è un quartiere di Teheran. Ha l’aria artificiale di un parco di divertimenti costruito alle pendici del monte Tochal, ai cui piedi sorge Teheran. L’ingresso è idealmente segnato da una piazzetta con la statua dorata di un alpino iraniano ai cui piedi famiglie scattano foto in continuazione e sovrapponendosi le une alle altre. Qui inizia un percorso pedonale articolato lungo una gola in cui scorre un sottile fiume: si sale e si passa di volta in volta da una sponda all’altra lungo balze di roccia. Ogni spazio libero è stato occupato: venditori di frutta secca, caramelle di zucchero, bibite, cianfrusaglie cinesi e insegne al neon alimentate da generatori a benzina che rischiarano la notte.

Mentre saliamo è impossibile ignorare l’odore di cibo che di metro in metro viene fuori da un ristorante diverso. Ce ne sono sotto le rocce e lungo il fiume, arrostiscono cibo all’aperto su semplici bracieri di metallo, al fianco di macellai che affilano coltelli e vendono carne freschissima all’aria aperta. macellaio
“Hai visto quei due uomini?” mi chiede Kourosh.
“Chi?”
“Guarda, quei due lì…si tengono per mano”.
“E’ vero…dici che stanno insieme? O è comune qui per gli amici fare così?”
“Non è tanto comune –risponde- forse sono omosessuali. Qui non ci sono controlli”.
Mi sembra di sentire la sottile libertà di quest’aria di montagna via via più fredda man mano che camminiamo. Intorno gruppi di giovani che salgono per fare dei picnic, intenzionati ad arrivare a piedi sul monte, anni luce dal caos della città.

Torniamo a Karaj in taxi, un tempo di strade larghe e lunghe, per lo più extraurbane. Di lato scorrono le luci ancora accese delle case basse, una torre lontana. Il taxista ascolta una musica persiana, io indico la radio e gli dico “Good music”, sorrido, lui ricambia e alza il volume. Mi sembra che il viaggio duri tantissimo e quando arriviamo guardo l’orologio: ci abbiamo messo più di un’ora. Paghiamo in tutto solo 60mila toman, 15 euro.

A casa di Kourosh tutti i familiari dormono a terra nel salone dove abbiamo pranzato. Andiamo a dormire anche noi su dei materassi sottili sul pavimento, in un’altra piccola stanza.

Un giro a Teheran

Ci svegliamo tardi e io sono già ansioso di uscire per vedere di più di Teheran. Presto capirò che l’Iran è un posto in cui non si può avere fretta, soprattutto nel periodo del Noruz. In casa adesso c’è anche Mandana, altra sorella di Kourosh, con suo marito, Kaveh: un uomo basso, un po’ calvo e con i baffi.

Filtro cellulare
La schermata che compare quando si prova a navigare su un sito bloccato in Iran (per esempio Facebook)

Facciamo ancora una lunga colazione tutti insieme e i nostri ospiti ci chiedono continuamente se ci piacciano le cose che mangiamo e le loro espressioni sono raggianti quando diciamo loro che è tutto buonissimo.
Kaveh conosce l’inglese, fa l’ingegnere informatico e ha una sua piccola attività. Con aria affabile ci parla di Facebook, cui normalmente in Iran non si può accedere ma ci spiega che ci sono delle app per aggirare i blocchi.
“E’ vero –ci dice- molti siti sono proibiti qui. Ma tutti i ragazzi riescono ad aggirarli tramite filtri e vpn” sorride. E’ diffuso –noterò anche in seguito- un atteggiamento quasi canzonatorio nei confronti del regime: esiste, ma si cerca di aggirarlo ricavandosi degli spazi di vita quotidiana per cercare di ignorarlo, tentare di far finta che non ci sia.

Prima di andare via facciamo una foto tutti insieme, sul grande divano al centro della casa. Shahin ha già indossato il velo per uscire ma lo vuole togliere per la foto di gruppo.
Tutte le donne qui in pubblico devono indossare il velo, ma molte non vorrebbero. Mi torna in mente il film che ho visto in aereo, la protagonista si svegliava e aveva il velo già perfettamente a posto, una finzione scenica come quella delle attrici americane che si svegliano nel cuore della notte e sono già perfettamente truccate.

Il palazzo Golestan

Al centro di Teheran visitiamo il palazzo Golestan, il monumento più antico in una città relativamente recente. Quello del Golestan è un complesso di edifici bassi e molto finemente decorati. Le sue origini datano a quando Teheran non era ancora capitale, lo divenne nel 1786. Uno degli edifici del palazzo, forse il più bello, è ornato con specchi.
“Tu, Shahin, cosa pensi della religione?” le chiedo, mentre camminiamo nel palazzo. Mi guarda, i suoi occhi scuri che sembrano sempre sorpresi.
“Non mi piace, a molti non piace ma tutti devono rispettare le sue leggi”.
“Anche io, sai –mi dice, d’un tratto malinconica- vorrei andare via, magari in Francia per un periodo, come Kourosh”
“Perché non lo fai allora?”
“Non ci sono mai riuscita. Non mi hanno dato il visto. Sai, per noi non è facile venire in Europa”

Pranziamo in un ristorante economico a pochi passi dal bazar di Teheran, quasi un fast food che però vende cibo tradizionale. La qualità è ottima, come sempre qui in Iran. Io prendo un pollo con le bacche rosse, tascheen, mentre Jonathas ordina del montone, baghalipolo ba mahische gardan. In pochi minuti il tavolo si riempie di cibo e bevande, le porzioni sono così abbondanti che ci viene il dubbio di non riuscire a finirle.

Di sera salutiamo la madre di Kourosh che ci passa più volte il corano intorno alla testa per augurarci buon viaggio. Prendiamo l’aereo che ci porterà a Shiraz, da dove continuerà la nostra avventura.

Testi e foto Riccardo Cavaliere

Sul sito la puntata successiva : Shiraz, la metà del mondo –

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