Loading

Quella che segue non è una recensione, sono solo appunti di lettura e alcune considerazioni sul Quartiere, romanzo di Vasco Pratolini. Qua e là ci sono mie riflessioni sulla città.

Il libro racconta un breve periodo di vita nel “Quartiere” che “al limite del centro della città, (…) si estendeva fino alle prime case della periferia, là dove cominciava la via Aretina”, a Firenze. Il punto di vista narrativo è quello del giovane Valerio, ma il racconto è corale, legato al luogo e alle persone che lo abitano. E’ come se Pratolini scattasse una foto di quel posto in quel periodo storico, ovvero negli anni ’30.  

La storia è quella di un gruppo di ragazzi, delle loro amicizie e dei loro amori. L’attrazione di Valerio per Luciana, le storie con Marisa e, in seguito, Olga, e poi l’amico Carlo, con i suoi occhi a tratti cattivi in contrasto con il buon Giorgio. Questi giovani dovranno affrontare il mondo esterno che irrompe con violenza nelle loro vite, con la guerra d’Etiopia, e nel Quartiere, con il risanamento.

In questo luogo metafisico si consumano piccoli drammi, coppie che si formano e che si lasciano, giovani che crescono, si innamorano, vivono il trauma dell’amore e della sua fine. E poi il trauma della guerra, e quello di un delitto. 

Infatti nel romanzo si racconta anche di un omicidio, compiuto da Gino, coinvolto in quello che sembra un rapporto omosessuale, anche se viene sempre descritto come un’amicizia. Gino viene arrestato e, in seguito, scriverà la sua versione dei fatti in una lettera a Giorgio. Alla fine si suiciderà.  

Sulla guerra (quella d’Etiopia) i personaggi del romanzo sono divisi. Carlo è eccitato all’idea di partire, Giorgio, invece, è scettico. E mentre la guerra è già iniziata, Valerio, lontano da casa, viene a sapere che nei combattimenti è morto il suo amico Carlo.
Infine torna nel quartiere e lo trova cambiato: è il “risanamento”, che gli era stato annunciato in diverse lettere mentre era lontano.  

Lo stile

Con un linguaggio essenziale, Pratolini descrive insieme un periodo storico e la vita del quartiere che pare avere delle caratteristiche immutabili. E’ un racconto familiare, perché racchiude una piccola parte di mondo. La narrazione corale di Valerio, che spesso parla al plurale, dà voce a un’identità non solo di gruppo ma anche di classe, poiché si riferisce a un proletariato urbano. Il personaggio di Giorgio è quello che più ne prende coscienza in modo anche politico.

Un esempio di questa narrazione corale è a pagina 90:
“Siamo gente consumata da servaggi e fazioni; scontiamo colpe secolari, nostre per quanto v’è di somigliante, nei nostri tratti, con le figure che ci contemplano dalle pareti del Carmine, affrescate da Masaccio.”

Microgeografia di Quartiere

Com’è ovvio già dal titolo, l’elemento urbanistico è fondamentale in questo romanzo. Si potrebbe parlare, in proposito, di microgeografia sentimentale. La rappresentazione del Quartiere è tanto minuziosa quanto astratta, perché alle caratteristiche delle strade, delle piazze, si affiancano quelle dei personaggi che vi vivono. In questo spazio metafisico e metaforico si esprimono i cambiamenti dei protagonisti, e, infatti, alla fine del libro questa microgeografia cambierà per via del risanamento. 

Ma che quartiere è, questo? Ce n’è una bella descrizione nelle primissime pagine, con le sue case “buie, umide e fredde d’inverno”.

“La casa significava i volti che le sue stanze ospitavano, e noi le volevamo bene per questo”, scrive Pratolini.

In diversi passaggi prende corpo questa identità tra i protagonisti e il luogo:
“Se io vi parlo di vizio, di cose brutali e immonde nel nostro Quartiere, voi che dite? […] Se io vi parlo di vizio, voi dite che ciò è naturale nelle nostre strade. Ma entrate nelle nostre case, nell’anno di grazia 1932, dopo tanta letteratura che se n’è fatta; vestite i nostri panni; ingoiate la miseria che ci assiste giorno e notte, e ci brucia come un lento fuoco o la tisi. Resistiamo da secoli intatti e schivi” (p.45)

E la città, Firenze? E’ quasi un altro mondo, lontano:
“La città era al di là di questa nostra repubblica, aveva per noi un senso di archeologia e di eldorado insieme: per parteciparvi occorreva che fossimo rasati e avessimo in dosso i vestiti migliori”. 

Eppure i personaggi provano un forte attaccamento per il luogo in cui sono cresciuti e dove vivono, tanto che il romanzo si apre proprio con questa frase:
“Noi eravamo contenti del nostro quartiere”

Il risanamento – Il Quartiere che cambia

Le vicende del quartiere sono quelle dei suoi abitanti, lo conferma proprio il risanamento, che avviene durante la guerra d’Etiopia. E’ un elemento a suo modo traumatico perché rappresenta l’intrusione del regime, con la sua urbanistica, in una dimensione quasi domestica. L’obiettivo, sulla carta, era quello di evitare una densità di popolazione troppo alta, che si accompagnava a un elevato indice di mortalità (come spiegano bene gli atti dell’epoca, messi in rete dal sito Conosci Firenze)
Un avvenimento che pare togliere agli abitanti il “diritto alla città“, il primo ad accorgersene è Giorgio, che ne scrive a Valerio durante la guerra:

“… stanno risanando il Quartiere, buttano giù le case per ricostruirle più belle e nuove, dove noi non potremo mai abitare coi fitti che verranno a costare. Questo, dicono, è uno dei primi risultati della guerra. Ma anche quelli che dopo vinta la guerra si credevano di navigare nell’oro si stanno svegliando con la bocca amara. Torna il discorso che facevo due anni fa al povero Carlo (…). Chi ha voglia di lavorare vada in Abissinia, dicono, e in realtà chi c’è andato manda dei quattrini, ne guadagna dieci e ne fa guadagnare centomila, questa è la morale. Non cambia nulla per noi. Basta una malattia, sotto quel clima, per buttarti a terra più povero che mai. E anche lavora lavora, quando hai messo da parte qualche migliaio di lire, sarai sempre costretto a misurarti il pranzo con la cena. E gli altri si fanno i milioni standoti a guardare. ”.

Dopo la guerra, è lo stesso Valerio a tornare e constatare con i propri occhi. Vaga nel vasto piazzale, osserva com’è diventato (p.189):
“Il piano del risanamento aveva infierito nel cuore del nostro Quartiere. Partendo appena dopo l’Arco di San Piero raggiungeva Borgo Allegri e via dell’Angolo, delle quali era rimasto in piedi un solo versante. Vista dalla prospettiva del piazzale, col sole che vi batteva contro, la fila delle vecchie case, unite l’una all’altra come un lungo caseggiato irregolare, dava un senso di tristezza. Le crepe, i logori infissi, le docce arrugginite, le stesse facciate rese sporche e grigie dal tempo, la lisa biancheria appesa alle finestre, perduti i fabbricati dirimpettai che ne ripetevano l’immagine, e smarrita la dimensione naturale della strada, mettevano a nudo il proprio squallore. Le stanze, violentemente illuminate dal grande arco di luce del piazzale, ponevano al vivo davanti agli occhi la povertà delle suppellettili.”

L’urbanistica ha dunque “infierito nel cuore del quartiere”, espressione di un potere centrale distante dai luoghi e dalle persone che vi abitano. Se la geografia fisica è l’espressione della natura, l’urbanistica è uno strumento del potere e il Fascismo lo usa con violenza. 

Ma gli abitanti resistono (p.191)
“Poiché la speranza era davvero racchiusa nel Quartiere – e mura, lastrici e volti erano una costante testimonianza della nostra ragione da far valere un giorno. Se avessimo soggiaciuto a recarci nelle case nuove della periferia, in ambienti più puliti, e salubri, che non avrebbero alleviato in nulla la nostra miseria, ma l’avrebbero bensì corrotta d’altre perfide voglie e tentazioni, ci saremmo dispersi e traditi.

E ancora sul risanamento è bello questo dialogo tra Valerio e il padre:

“Capisci com’è? Con la scusa del risanamento abbattono il Quartiere e poi ci ricostruiscono palazzi per allargare il centro della città. Nello stesso tempo costruiscono le case alla periferia. Così le imprese fanno un doppio affare, mentre le nostre paghe restano sempre uguali, oppure oggi te le aumentano e domani aumentano il prezzo del vino. È un giro vizioso, vecchio quanto il cucco, ma gli riesce sempre, che vuoi farci?”
“Fino a quando pensi gli riuscirà, babbo?” 
Egli sorrise, si grattò il mento col pollice, disse:
“Vuoi che ti risponda: fino a quando non faremo la rivoluzione?”
“Perché, non ci credi?”

“Io ci credo se tu ci credi” rispose mio padre.

E alla fine, le ultime frasi del libro:

E Marisa disse: 
“Hai trovato diverso il Quartiere. Ma la gente c’è ancora tutta, lo sai. Si è ammassata nelle case rimaste in piedi come se si fosse voluta barricare. Quei pochi che sono andati ad abitare alla periferia, dove c’è l’aria aperta e il sole, nel Quartiere li considerano quasi disertori.”

“Infatti”, le risposi, “anche l’aria e il sole sono cose da conquistare dietro le barricate.”

La guerra

La guerra di cui racconta il libro è quella in Abissinia, antico nome dell’Etiopia. Due parole su questa guerra. Se non vi interessa, saltate pure il capoverso successivo.

La guerra scoppiò il 3 ottobre 1935. Nel periodo precedente, i giornali ne avevano affermato la necessità per l’Italia, dato l’eccesso di popolazione per il Paese. Ma essenziale, nell’entrata in guerra, fu la volontà di dare prestigio all’Italia, con una politica di potenza (vedi Chabod, L’Italia contemporanea, p.91). In altre parole, l’Italia doveva riconquistare “un posto al sole”. In breve, vi furono episodi di una violenza inaudita, come il bombardamento di 60 tonnellate di iprite dopo la battaglia dell’Amba Aradam, crimine di guerra raccontato bene da Del Boca (in Italiani, brava gente? p.197).

Alla vigilia del conflitto, o, meglio, dell’invasione, c’erano, ovviamente, opinioni diverse (per quanto fossero espresse solo relativamente, visto che si era in un regime). Ce n’è traccia anche in Pratolini, con un’eco di conflitto di classe. Ne riporto alcuni passaggi perché penso siano interessanti per capire come veniva vista la guerra all’epoca, considerando che il romanzo viene finito nel 1943 ma che Pratolini vi aveva già lavorato negli anni precedenti, dunque si tratti di brani che rendono bene l’idea del periodo. 

Ecco cosa dice Giorgio, critico, a Carlo, che, invece, è entusiasta della guerra che sta per iniziare (p.123):

“Mi sembra che basterebbe togliere un poco a tutti quelli che hanno per ricavarne più frutti che dalla occupazione dell’Abissinia”
“Ma l’Abissinia ci renderà eternamente. E’ una miniera. Ci costruiremo fabbriche, cantieri, ci porteremo gente nostra a lavorare”
“E perché? Togliendo un poco a tutti quelli che hanno non si costruirebbero anche qui fabbriche e cantieri? NOn c’è forse spazio per le fabbriche e i cantieri qui da noi, invece di andare in casa d’altri a fare le prepotenze e rimetterci tante vite di fratelli?”.

Sarà proprio Carlo, però, a perdere la vita nei combattimenti. Più avanti, verso la fine del romanzo, il dramma del conflitto emerge anche in una conversazione tra Valerio e Marisa:

“”Pensi che Carlo, e mio fratello, mille e mille come loro, siano morti per nulla?”
“Non sono morti per nulla” risposi.
“Dal loro esempio noi dovremmo imparare a lottare per non essere più traditi.”

Top